Per altri canali mi è arrivato un articolo di Tiziano Terzani,
che rispose dal Corriere della Sera alle prime lettere della
Fallaci.
Tante cose sono cambiate da quando è stato scritto: Oriana
scrive nuovi libri, addirittura raddoppia ed intervista se stessa,
l’attacco in Afghanistan c’è già stato, quello in Iraq pure, e si guarda in
tralice la Somalia.
Il petrolio è alle stelle, il terrorismo è in
metastasi molto di pù di quanto non fosse nell’estate 2001. Non ultima, Tiziano
Terzani è morto. Ora
però sa se aveva ragione oppure no.
L’articolo è lunghetto, mettetevi comodi.
Il Sultano e
San Francesco
Oriana,
dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata,
guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a
guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora
mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi
anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi
nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione
nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle «Lettere da
due mondi diversi»: io dalla Cina dellâimmediato dopo-Mao in cui andavo a
vivere, tu dallâAmerica. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella
tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una
corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti.
Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho lâimpressione di
stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.
Ti scrivo anche – e
pubblicamente per questo – per non far sentire troppo soli quei lettori che
forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal
crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro
senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana –
la ragione; il meglio del cuore – la compassione.
Il tuo sfogo mi ha
colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si
faccia avanti e taccia», scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi
allâindicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse
paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno
un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere
fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel
consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dellâumanità , unâopera che
sembra essere ancora di unâinquietante attualità .
Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il
problema è però che, grazie alla tua notorietà , la tua brillante lezione di
intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi
inquieta.
Il nostro di ora
è un momento di straordinaria importanza. Lâorrore indicibile è appena
cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande
occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché
certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a
risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dellâodio che dorme
in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile
ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e
lâuccidere.
«Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che
conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino
dinanzi a me», scriveva nel 1925 quella bellâanima di Gandhi. Ed aggiungeva:
«Finché lâuomo non si metterà di sua volontà allâultimo posto fra le altre
creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza».
E tu, Oriana,
mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono
come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La
salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare
chiamata, tanto per rendercela più accettabile, «Libertà duratura». O tu pensi
davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che
mondo è mondo non câè stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le
guerre. Non lo sarà nemmen questa.
Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il
mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il
nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola:
rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che
ci illudevamo dâaver davanti prima dellâ11 settembre e soprattutto non
arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno allâinevitabilità della
guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.
Le guerre
sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di
morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a
combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa
quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora
dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno
ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il
rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri
Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza – ora in
Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà
necessariamente una loro ancora più orribile e poi unâaltra nostra e così via.
Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di
quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di
poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla
terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo
a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologice –
Stati Uniti in testa – dâimpegnarsi solennemente con tutta lâumanità a non
usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità .
Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo
fa un vantaggio morale – di per sé unâarma importante per il futuro -, ma
potrebbe anche disinnescare lâorrore indicibile ora attivato dalla reazione a
catena della vendetta.
In questi giorni
ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano)
di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die
Kunst, nicht regiert zu werde n: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (
Lâarte di non essere governati: lâetica politica da Socrate a Mozart ). Lâautore
è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare
allâUniversità di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la
politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta
e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come
quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare allâuomo la
necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla
civiltà . Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare
Abele e, dopo aver marchiato Caino – un marchio che è anche una protezione -, lo
condanna allâesilio dove quello fonda la prima città . La vendetta non è degli
uomini, spetta a Dio.
Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a
Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dellâuomo
occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un
conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili
scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni
e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine.
Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i
soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni
ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il
nostro dolore.
A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece.
Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle «Tigri Tamil», votati al
suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di «Hamas» che si fanno saltare
in aria nelle pizzerie israeliane. Un poâ di pietà sarebbe forse venuta anche a
te se in Giappone, sullâisola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro
dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte
poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a
morire per la bandiera e per lâImperatore. I kamikaze mi interessano perché
vorrei capire che cosa li rende così disposti a quellâinnaturale atto che è il
suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli –
fortunatamente – sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare
nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui lâecatombe
nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di
giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il
problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando
le ragioni che li rendono tali.
Niente nella storia umana è semplice da
spiegare e fra un fatto ed un altro câè raramente una correlazione diretta e
precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di
cause che producono, assieme a quellâevento, altre migliaia di effetti, che a
loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. Lâattacco alle Torri
Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti
antecedenti. Certo non è lâatto di «una guerra di religione» degli estremisti
musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come
la chiami tu, Oriana. Non è neppure «un attacco alla libertà ed alla democrazia
occidentale», come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici.
Un vecchio accademico dellâUniversità di Berkeley, un uomo certo non
sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una
interpretazione completamente diversa. «Gli assassini suicidi dellâ11 settembre
non hanno attaccato lâAmerica: hanno attaccato la politica estera americana»,
scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore
di vari libri – lâultimo, Blowback , contraccolpo, uscito lâanno scorso (in
Italia edito da Garzanti ndr ) ha del profetico – si tratterebbe appunto di un
ennesimo «contraccolpo» al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e
lo sfasciarsi dellâUnione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la
loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel
mondo.
Con una analisi
che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione
del Kgb, Chalmers Johnson fa lâelenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di
Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di
regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente
o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio
Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.
Il «contraccolpo»
dellâattacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una
serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla
Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dallâinstallazione dello Shah in Iran,
alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane
nella penisola araba, in particolare lâArabia Saudita dove sono i luoghi sacri
dellâIslam.
Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana «a
convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono
un implacabile nemico». Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo
diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro
alleati. Esatta o meno che sia lâanalisi di Chalmers Johnson, è evidente che al
fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente
câè, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione
occidentale di far restare nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero,
le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. Lâoccasione
per uscirne è ora.
Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal
petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una
ventina dâanni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo
così dâessere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei
talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno
sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a
mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così
anche lâAlaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori,
guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche – tutti lo sanno – sono
fra i petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu
avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo
sullâAfghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo
paese è legato al fatto dâessere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura
intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dellâAsia Centrale
(vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente,
alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, lâIndia e da lì nei paesi del
Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dallâIran. Nessuno in questi
giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili»
talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per
trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la
Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata
col Turkmenistan a costruire quellâoleodotto attraverso lâAfghanistan. È dunque
possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la
democrazia, lâimminente attacco contro lâAfghanistan nasconda anche altre
considerazioni meno altisonanti, ma non meno
determinanti.
È per questo che
nellâAmerica stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la
combinazione fra gli interessi dellâindustria petrolifera con quelli
dellâindustria bellica – combinazione ora prominentemente rappresentata nella
compagine al potere a Washington – finisca per determinare in un unico senso le
future scelte politiche americane nel mondo e per limitare allâinterno del
paese, in ragione dellâemergenza anti-terrorismo, i margini di quelle
straordinarie libertà che rendono lâAmerica così particolare.
Il fatto che
un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa
Bianca per essersi chiesto se lâaggettivo «codardi», usato da Bush, fosse
appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e
lâallontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi,
hanno aumentato queste preoccupazioni.
Lâaver diviso il mondo in maniera –
mi pare – «talebana», fra «quelli che stanno con noi e quelli contro di noi»,
crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui
lâAmerica ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti
intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di
essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in
moltissimi casi lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana – anche a
colpi di sputo – alle «cicale» ed agli intellettuali «del dubbio» va in quello
stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il
fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come
volere togliere lâaria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto dâaver
risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il
politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e
mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve
essere un crimine parlare di pace.
Purtroppo anche qui da noi, specie nel
mondo «ufficiale» della politica e dellâestablishment mediatico, câè stata una
disperante corsa alla ortodossia. È come se lâAmerica ci mettesse già paura.
Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una
qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di
quellâAmerica che per due volte ci ha salvato. Ma non câera anche lui nelle
marce contro la guerra americana in Vietnam?
Per i politici – me ne rendo
conto – è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più lâangoscia
di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per
risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese
con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in
nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.
Siamo fortunati
noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del
fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente.
Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di
andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi di
comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said,
professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul
ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in
America.
Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è
complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la
quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di
immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni
verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore , ma tu
credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante,
saranno migliori?
Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di
religione, anche che cosa è lâIslam? Che a lezione di letteratura leggessero
anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero
quelli che studiano lâarabo, oltre ai tanti che già studiano lâinglese e magari
il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese
affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari
che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in
Australia.
Mi frulla in
testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più
lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi
vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti
gli altri messi assieme».
Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce
ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi
di crociate, ma il suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali
combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima
volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò
una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente,
nel corso della quinta crociata, durante lâassedio di Damietta in Egitto,
amareggiato dal comportamento dei crociati («vide il male ed il peccato»),
sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San
Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato
al cospetto del Sultano. Peccato che non câera ancora la Cnn – era il 1219 –
perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quellâincontro.
Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò
avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse,
incolume, allâaccampamento dei crociati.
Mi diverte pensare che lâuno disse
allâaltro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano
lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono dâaccordo sul messaggio che
il poverello di Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso».
Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare,
fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che
comunque non potevano fermare la storia.
Ma oggi? Non fermarla può voler
dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze
quando noi eravamo ragazzi? Riguardo allâorrore dellâolocausto atomico pose una
bella domanda: «La sindrome da fine del mondo, lâalternativa fra essere e non
essere, hanno fatto diventare lâuomo più umano?». A guardarsi intorno la
risposta mi pare debba essere «No». Ma non possiamo rinunciare alla speranza.
«Mi dica, che cosa spinge lâuomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein nel
1932 in una lettera a Sigmund Freud. Â«È possibile dirigere lâevoluzione psichica
dellâuomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi
dellâodio e della distruzione?» Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua
conclusione fu che câera da sperare: lâinflusso di due fattori – un
atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra
futura – avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.
Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra
Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più
convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla
sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse
allâumanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che siete
uomini e dimenticatevi tutto il resto».
Per difendersi, Oriana, non câè
bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non
câè bisogno dâammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste
eccezioni. Mâè sempre piaciuta nei Jataka , le storie delle vite precedenti di
Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una
incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500
persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, «vede» che uno dei
passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene
buttandolo nellâacqua ad affogare per salvare gli
altri.
Essere contro la
pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della
libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto
di certe regole che sono il frutto dellâincivilimento, occorre il convincimento
della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi
al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità
commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere,
gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano
schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?
«Noi abbiamo tutte le prove
contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo
estradiate», scrive in questi giorni dallâIndia agli americani, ovviamente a moâ
di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose : una
come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a
cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin
Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il
presidente americano della Union Carbide responsabile dellâesplosione nel 1984
nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista
anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì.
Lâimmagine del
terrorista che ora ci viene additata come quella del «nemico» da abbattere è il
miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dellâAfghanistan, ordina
lâattacco alle Torri Gemelle; è lâingegnere-pilota, islamista fanatico, che in
nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese
che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una
folla.
Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa essere
lâuomo dâaffari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta
non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a
causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita
in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di
cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di
famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che
cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per
produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più
conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli
operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il
riso, muoiono di fame?
Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il
terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a
volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune
del nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nellâessere a
fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi
e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari
paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la
pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su
quel che si debba volere al posto della guerra. «Dateci qualcosa di più carino
del capitalismo», diceva il cartello di un dimostrante in Germania. «Un mondo
giusto non è mai NATO», câera scritto sullo striscione di alcuni giovani che
marciavano giorni fa a Bologna. Già . Un mondo «più giusto» è forse quel che noi
tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si
preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed
ispirato ad un poâ più di moralità .
La vastissima, composita alleanza che
Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e
riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché
ora tornano comodi, è solo lâennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi
alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei
nostri paesi.
Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e
per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale,
hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il
paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese
che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte
Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine
anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni
climatiche.
Lâinteresse nazionale americano ha
la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre
lâutilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e
punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo
la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui
affidare i «lavoretti sporchi» di liquidare qua e là nel mondo le persone che la
Cia stessa metterà sulla sua lista nera.
Eppure un giorno la politica dovrà
ricongiungersi con lâetica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in
Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze.
A proposito, Oriana. Anche a
me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce.
Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dellâIslam o degli
immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una
città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era
bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i
musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il
giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla
stazione. È così perché anche Firenze sâè «globalizzata», perché non ha
resistito allâassalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile:
la forza del mercato.
Nel giro di due anni da una bella strada del centro in
cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar,
una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A
tanti negozi di moda. Credimi, anchâio non mi ci ritrovo più.
Per questo
sto, anchâio ritirato, in una sorta di baita nellâHimalaya indiana dinanzi alle
più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed
immobili, simbolo della più grande stabilità , eppure anche loro, col passare
delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La
natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere
lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la
scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente
inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come
un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le
torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo dâerba al vento e sentiti come
lui. Ti passerà anche la rabbia.
Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella
non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte.