Alla Fiera di San Clemente

Questa è stagione di sagre e di feste all’aperto, si sa, e la Bassa, proprio quella di Guareschi, non fa eccezione.
Per l’occasione il nostro Don Camillo e la nostra Peppona (sindaco donna, segno che i tempi cambiano, ma rigorosamente PCI-DS, segno che certe cose invece NON cambiano) si sono messi di comune accordo, e come tradizione ormai tricentenaria hanno deciso di celebrare la Sagra di San Clemente (detta “Fiera”). Gli oneri vengono così ripartiti: la Parrocchia tiene aperto il santuario e organizza la pesca di beneficenza, il comune paga le associazioni di volontariato per fare il resto.

Caso vuole che la mia famiglia sia pesantemente implicata in una di queste associazioni (la “Polivalente Forum”), e che i turni di servizio mi abbiano dato l’opportunità di descrivervi con dovizia di particolari le attrattive del luogo. Tengo a precisare che tuto quello raccontato, seppur vagamente romanzato è assolutamente autentico.

In primis: il Santuario
La chiesa di San Clemente (all’anagrafe Santuario della Madonna di San Clemente) sorge in mezzo a una distesa sconfinata di quella che si chiama “cià pa”, che non è una parte anatomica ma un unità di miusura che sta grossomodo per “un bel pò di terra”. Tutto intorno, fino all’orizzonte, ci sono campi di “frumentone” (mais).
Questi campi, una volta trebbiati, assumono un aspetto da tundra, ridotti a distese di terriccio sabbioso intervallate da file di “sprocchi”, ossia di stoppia secca, dura e appuntita.
Cotanto spazio utile viene adibito solitamente a Parcheggio, assumendosi peò i seguenti due rischi:
1) se spira un alito di vento si sollevano nuvole vorticanti di polvere, con effetto Ghibli sahariano, che si depositano sulle auto appena lucidate per l’importante evento, rendendole monocrome, e nelle pupille della brava gente, che con un momentaneo sbandamento dal rispetto per San Clemente smadonnano un secondo e poi riprendono a camminare.
2) Se fa tanto di piovere si trasforma tutto in un gigantesco imbuto di formicaleone, in cui il pantano colloso tiene prigioniere le auto, che sprofondano inesorabilmente. La gente comincia a correre verso il parcheggio, togliendosi le scarpe e rimboccando i calzoni (e smadonnando ancora un po) e cercando di portare fuori le auto, che arrancano con gemiti strazianti. Ovviamente il campo è circondato da un fosso invalicabile, e per uscire c’è un solo “passo”. Sempre più ovviamente, il primo che riesce a muover l’auto fa in modo che si impantani irrimediabilmente davanti al passo, impedendo quindi l’uscita di tutti gli altri.
Di solito appena arrivati all’apice del marasma smette di piovere.
Questo evento è di solito auspicato dai contadini del circondario, che per l’occasione escono con i trattori e a pagamento fanno operazione di recupero. Per questo motivo alcuni ceri accesi nel santuario, al primo accenno di nuvole, sono guardati con sospetto.


Intorno al santuario c’è solo un’altra cosa, oltre ai campi: le porcilaie. Ora i suini vivono in ambienti climatizzati, con luci soffuse e servizi igenici, ma anni fa, se il vento cambiava, poteva originare un’altra piaga biblica, la pestilenza.


Il Santuario è il centro dell’orgoglio del paese, mirabile espressione artistica, memoria eterna della devozione.


Di solito, poi, dopo la sagra viene chiuso e dimenticato fino a maggio dell’anno prossimo, in occasione del pellegrinaggio del Rosario.
Quetso pellegrinaggio vede, per le strade deserte delle 5 di domenica mattina, sfilare una processione che si sgrana proprio come un rosario, composta da vecchiette che intonano la “virgo parade”, con asincronie di parecchi secondi, e da scout che, camminando con la bicicletta a fianco (utile per il ritorno), dormono biasciando inconsciamente il matra del rosario, e risvegliati di tanto in tanto dal pedale della bicicletta che morde i garetti. Davanti a tutti il Povero Cristo che porta la croce, immedesimandosi alquanto, e in coda i Vigili Urbani, con l’aria di chi sia stato appena trasferito in Barbagia.


(segue…)