Giorgio Faletti, Ed. Baldini & Castoldi 2002, 681 pag. â¬17,20
“Giorgio Faletti? Quello che cantava ‘Minchia signor Tenente’ a San Remo e prima ancora faceva il ‘matto matto matto’ per avere in regalo un ‘giumbotto’ a Drive In?” – direte voi. Ebbene sì.
E devo dire che è una piccola rivelazione.
Faletti si lancia nella scrittura, creando un giallo
sicuramente.. sostanzioso, e decisamente avvincente.
Il tema è quello
classico del Serial Killer, contornato da tutti i personaggi “classici”:
l’ex-agente FBI, il poliziotto locale di buon cuore, il generale
incacchiatissimo, la bella in difficoltà , e così via. Il tutto ambientato in un
contesto piuttosto inusuale, il principato di Monaco e gli studi di Radio
MonteCarlo.
Nonostante questi personaggi un poco stereotipati, lo sforzo di
Faletti di scrivere qualcosa di poco scontato è evidente, e direi raggiunto
nella maggior parte dei casi. Ci sono molti indizi “devianti”, passati
misteriosi, e colpi di scena, che mantengono alta l’attenzione attraverso tutte
le 600 e passa pagine. Anche lo stile della narrazione è gradevole, con un poco
di alone “noir” anni 30, dell’investigatore bello e maledetto, tutt’altro che
pacchiano.
Lo consiglio a tutti, è un buon giallo da tempo libero.
Tratto da pagina 9:
Primo carnevale
L’uomo è uno e nessuno.
Porta da anni la sua faccia appiccicata alla
testa e la sua ombra cucita ai piedi e ancora non è riuscito a capire quale
delle due pesa di più. Qualche volta prova l’impulso irrefrenabile di staccarle
e appenderle a un chiodo e restare lì, seduto a terra, come un burattino al
quale una mano pietosa ha tagliato i fili.
A volte la fatica cancella tutto e non concede la possibilità di capire che
l’unico modo valido di seguire la ragione è abbandonarsi a una corsa sfrenata
sul cammino della follia. Tutto intorno è un continuo inseguirsi di facce e
ombre e voci, persone che non si pongono nemmeno la domanda e accettano
passivamente una vita senza risposte per la noia o il dolore del viaggio,
accontentandosi di spedire qualche stupida cartolina ogni tanto.
C’è musica dove si trova, ci sono corpi che si muovono, bocche che sorridono,
parole che si scambiano e lui sta fra di loro, uno in più per la curiosità di
chi vedrà sbiadire giorno per giorno anche questa fotografia.
L’uomo si appoggia a una colonna e pensa che sono tutti inutili.
Di fronte a lui, dall’altra parte della sala, sedute una di fianco all’altra
a un tavolo vicino alla grande vetrata che dà sul giardino, ci sono due persone,
un uomo e una donna.
Nella luce soffusa, lei è sottile e dolce come la malinconia, ha i capelli
neri e gli occhi sono verdi, talmente luminosi e grandi che li vede anche da lì.
Lui ha occhi solo per la sua bellezza e le parla all’orecchio, per farsi sentire
oltre il frastuono della musica. Si tengono per mano e lei ride alle parole del
compagno, rovesciando la testa all’indietro o nascondendo il viso nell’incavo
della sua spalla.
Poco fa lei si è voltata, forse punta in qualche modo dalla fissità dello
sguardo dell’uomo appoggiato a una colonna, cercando l’origine di un lontano
disagio. I loro occhi si sono incrociati ma quelli di lei sono passati
indifferenti sulla sua faccia come sul resto del mondo che la circonda. È
tornata a regalare il miracolo di quegli occhi all’uomo che è con lei e che la
ricambia con lo stesso sguardo, impermeabile a ogni messaggio esterno al di
fuori della sua presenza.
Sono giovani, belli, felici.
L’uomo appoggiato a una colonna pensa che presto moriranno.